Da decenni, la Formula 1 è sinonimo di storica tradizione, innovazione tecnologica e spettacolo ai massimi livelli. Ma proprio in tempi recenti, un elemento che in passato veniva dato per scontato, sta generando polemiche e confusione: la scelta dei colori per le livree delle monoposto. Ciò che un tempo rappresentava l’identità visiva inconfondibile di ogni scuderia, oggi rischia di compromettere la chiarezza nell’individuazione dei team e dei piloti in pista, generando frustrazione tra tifosi, appassionati e addetti ai lavori.
In passato, ogni squadra aveva una propria palette cromatica inconfondibile, come il classico rosso Ferrari, il British Racing Green dell’Aston Martin, il blu chiaro Williams o il giallo Renault. Tuttavia, con l’avvento delle nuove esigenze aerodinamiche e, soprattutto, del peso delle monoposto sempre più limitato, la presenza della fibra di carbonio a vista sta diventando predominante sulle carrozzerie. Il risultato? Tante vetture sembrano ormai simili, penalizzando la riconoscibilità immediata soprattutto durante le fasi più concitate delle gare.
Questo fenomeno ha anche una componente tecnica: alleggerire la verniciatura elimina preziosi grammi, dettaglio non trascurabile in una categoria in cui ogni millesimo può fare la differenza. Ma la conseguenza, volente o nolente, è un paddock “monocromatico”: i toni scuri della fibra di carbonio spiccano quasi ovunque, riducendo fortemente il contrasto tra le diverse monoposto quando sono viste dalle tribune o, peggio ancora, attraverso le telecamere in certe condizioni di luce.

Quello che in principio è stato una soluzione tecnica, è ora diventato una vera e propria problematica anche dal punto di vista commerciale e per lo spettacolo. Gli sponsor faticano a farsi notare, il coinvolgimento emotivo dei tifosi, già sotto pressione dopo stagioni dominate da pochi costruttori, rischia di diminuire ulteriormente quando la propria squadra preferita è distinguibile solo con uno sforzo di attenzione superiore. Le telecronache sono diventate più complesse: anche i cronisti più esperti spesso tentennano nel riconoscere velocemente chi sta compiendo sorpassi o manovre cruciali.
Ci sono esempi eclatanti: la McLaren arancione papaya ha dovuto ridurre le superfici colorate, la Mercedes alterna dettagli verdi e neri, l’Aston Martin fatica a mantenere vivo il suo verde ormai troppo scuro e la Red Bull, nonostante il suo classico blu notte, spesso si confonde nelle ombre e nel traffico. Il trend è chiaro: l’estetica vive un momento difficile quando la prestazione tecnica obbliga a sacrificare l’identità visiva. Alcuni team come Alpine o Ferrari provano a distinguersi puntando su sfumature o accenti specifici, ma raramente riescono a farlo senza sacrificare grammi preziosi.
La soluzione non è affatto semplice. Da un lato, la FIA e Liberty Media potrebbero prendere in considerazione una regolamentazione minima relativa alla quantità di superficie colorata da garantire per ogni monoposto. Dall’altro, urge un ripensamento strategico da parte delle scuderie su come rendere le livree funzionali, leggere, ma soprattutto riconoscibili e spettacolari per il pubblico globale.
In fondo, la Formula 1 non è solo competizione tecnica, ma anche emozione, simboli, cultura visiva. Riportare il colore e l’identità distintiva in primissimo piano significherebbe favorire un legame più profondo tra squadre e tifosi, restituendo alla massima serie quella magia visiva che, negli anni d’oro, era una delle sue caratteristiche più affascinanti e popolari. La sfida, oggi, è ridare alla F1 quei colori che la rendono unica agli occhi del mondo.